Tra Tacchi, Birkenstock ed Emancipazione.

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UN PASSO AVANTI O UN PASSO INDIETRO?

PREMESSA

Non ho visto il film Barbie, quindi le considerazioni che seguono originano dall’analisi di quanto argomentato da una certa corrente di pensiero che ha alimentato il dibattito intorno al tema “tacchi” in queste settimane e che ha fatto tornare in auge un vecchio - e speravo superato - adagio circa l’opportunità o meno di indossarli in un’ottica di emancipazione femminile.

Si tratta sicuramente di una interpretazione pazziale e soggettiva di un passaggio del film, non necessariamente aderente alla realtà né l’unica possibile rispetto alle tante chiavi di lettura che avrà senza dubbio offerto la pellicola.

Tuttavia ho deciso di utilizzarla come spunto per un approfondimento poiché, come immaginerete, il tema mi è particolarmente caro.

EMANCIPAZIONE E TACCHI

Penso che la vera emancipazione risieda nel liberarsi completamente di ogni parametro di giudizio esterno.

Smetterla, per esempio, di misurare le scelte che operiamo sul nostro corpo sul metro della presunta validazione dello sguardo maschile. Che sia nel senso del compiacimento delle aspettative o nel suo disattenderle volontariamente.

Cambia poco. 

(L’ho toccata subito piano). 

“Non indosso più i tacchi perché non voglio compiacere le aspettative degli uomini che ci vogliono vedere come loro oggetto del desiderio, fragili e traballanti, a prescindere da cosa ritengo più rappresentativo della mia identità” è un approccio estremamente immaturo.

Cioè sintomatico di una immaturità di pensiero: lo so, sono parole forti.

È un po' come quando i figli iniziano a mettere in discussione l’autorità genitoriale, le regole, la scala di valori.

In una prima fase è tutto “No”, fanno esattamente il contrario di ciò che gli viene indicato come “giusto” in modo acritico, perfino danneggiandosi se del caso.

È un passaggio necessario, certamente, sano suppongo, ma un passaggio.

Poi si elabora, si sedimenta e sintetizza. Chi più chi meno, lo abbiamo fatto tutte.

Rimane ciò che siamo, ciò che va bene per noi e che non è più subordinato al volere e alle credenze altrui.

Il nostro, e potrebbe anche contenere delle contraddizioni.

I tacchi potrebbero rappresentare la massima espressione della nostra personalità, potrebbero essere i nostri peggiori nemici o potrebbero essere qualcosa a cui aspiriamo ma non sappiamo sceglierlo in modo da conciliare comfort e estetica.

E su questo avrei scritto un libro (fatemelo ricordare di tanto in tanto, please).

Potremo parlare di libera scelta quando l’unico sguardo che ci interesserà sarà il nostro allo specchio.

E, attenzione, se all’esito di questo percorso ci rendessimo conto che il nostro intento è anche quello di apparire sexy e attirare l’attenzione, nessuno potrebbe o dovrebbe comunque giudicarci.

Che donna decidete di essere riguarda solo voi: non passiamo dal dover corrispondere le aspettative di un uomo al dover soddisfare quelle di altre donne che ci vogliono insegnare quale è l’unico modo giusto di essere donna

È una trappola anche questa.

Un meccanismo di difesa di chi, per proteggere quella piccola porzione di territorio faticosamente conquistata, impone il proprio sentire alle altre per rivendicare la validità universale delle sue idee.

Per non vederlo messo in discussione, in pericolo.

Lo capisco, empatizzo, ma non intendo lasciarmi sopraffare e vorrei non accadesse anche a voi.

Lo capisco veramente, sono sincera.

Io, ad esempio, nelle mie newsletter e sui miei canali social, parlo sempre al femminile, perché la maggior parte di voi è donna o si identifica come tale.

Allora mi sono detta: “Se per anni è bastato un uomo in una stanza con 100 donne per declinare tutto al maschile, gli uomini che mi seguono possono tollerare che io mi rivolga loro al femminile”.

Ha senso, ma è infantile e non inclusivo.

Una piccola debolezza che reitero e mi perdono, ma sono consapevole di ciò che è: un limite.

Tutto questo per dire che dovete render conto solo a voi stesse.

E, a proposito di trappole, passiamo alla questione Birkenstock.

   

Le Birkenstock sono veramente la scarpa più comoda del mondo, la panacea di tutti i mali (come mi ha scritto in modo ironico Alessandra in DM)?

NO.

E non perché non sia una buona scarpa, non entrerò nel merito, ma perché la scarpa perfetta non esiste.

Esiste la scarpa perfetta per noi, per il nostro piede, per la nostra personalità e per le nostre esigenze.

Non è dunque plausibile che sia adatta a tutti i piedi, personalità e stili di vita.

Che scarpa è, quindi, la Birkenstock?

Una scarpa con un plantare ergonomico preformato, per dirne una, quindi non adatta a tutte le piante del piede.

Una scarpa bassa, non adatta a tutte le caviglie.

Una scarpa con delle ottime fasce regolabili che, però, non regola quasi mai nessuna, nonostante sia la migliore caratteristica del modello.

E sapete perché? Perché sono anni che la Birkenstock ha messo in secondo piano il tema del comfort per lavorare sull’appetibilità estetica allo scopo di raggiungere un nuovo target e ampliare il suo bacino di utenza. Diversamente, trovereste scritto ovunque di regolare le fasce in base alla larghezza della vostra pianta e all’altezza del collo del vostro piede, come ho fatto io con le 8 Fibbie.

Invece no, perché da tempo la strategia è cambiata.

Birkenstock rivolgendosi, da un’altra clientela, per far digerire l’estetica della scarpa, a chi nutriva delle riserve e opponeva resistenza, e per superare l’impaccio della scarsa versatilità (perché, diciamoci la verità, per la maggior parte dei contesti lavorativi - ad esempio - è del tutto inadeguata) ha fatto leva, in modo estremamente intelligente, su due sentimenti:

  1. Il desiderio di ribellarsi al condizionamento maschile, cavalcando l’onda di un femminismo molto acerbo. “Gli uomini ci vogliono soffrenti sui tacchi? Allora noi ci mettiamo le ciabatte”.

  2. L’altrettanto potente desiderio di sentirci belle. Avete letto bene e avete anche percepito bene la contraddizione.

Improvvisamente ad indossare le Birkenstock non è più la turista con i calzini e i bermuda, ma le influencer più amate e seguite. Attrici e modelle le portano inserendole in dei look costruiti in modo da elevarle ad accessorio “cool” (altra parola che detesto quanto “tendenza”). I modelli di riferimento sono dunque donne di una bellezza canonica e normata che ci parlano ancora una volta dei soliti standard. Per rafforzare immagine e posizionamento aumentano le collaborazioni con brand con un forte posizionamento nella fascia lusso (vedi Proenza Schouler, Lil Sander, Manolo Blahnik e Valentino) che, altrettanto, si avvalgono di modelle e donne, in generale, riconosciute come icone di stile che incarnano un’ideale di bellezza canonico. 

E qui casca l’asino.

Allora ci interessa o non ci interessa essere belle?

È veramente un atto di ribellione indossare le Birkenstock, come simbolo di cambiamento e rifiuto della schiavitù della perfezione?

L’unica possibilità che abbiamo di coniugare comfort ed estetica sono le Birkenstock?

I tacchi vanno banditi a priori?

Ogni donna può - o deve - sentirsi rappresentata dalle Birkenstock?

SI, ci interessa essere belle e NO, non è affatto un atto di ribellione né l’unica via.

È piuttosto l’ennesima omologazione frutto di un’operazione di marketing – decisamente ben riuscita - mascherata da atto rivoluzionario di emancipazione femminile. Quanto meno per chi la vuole leggere cosi.

Ragazze mie, (e mi rivolgo a chi ha voluto abbracciare questa lettura), Margot Robbie è Barbie.

È alta, bionda, bianca, snella e indossa un blazer oversize sopra ad un jeans che le veste come una modella.

La biasimiamo? Certamente no, ma non c’è nulla di illuminante e disruptive in questo.

È uno stereotipo. Un nuovo stereotipo.

Reso appetibile da una marmellata di pseudo femminismo spalmata sopra all’immagine impeccabile di un’attrice meravigliosa che non è rappresentativa neanche di un decimo della popolazione femminile.

Quindi? Quindi una grande operazione di marketing.

Prima ancora che della Birkenstock, di Mattel che ha, a questo punto con un certo successo, ribaltato il paradigma di una bambola che rischiava di diventare obsoleta in un periodo storico come questo, ingraziandosi proprio la maggior parte dei detrattori.

Ha distrutto un cliché creandone uno nuovo.

Hanno creato una nuova gabbia, delle nuove linee guida, perché abbiamo bisogno di paletti, di schemi in cui muoverci.

Perché il terreno della libertà è troppo vasto, fa paura, per orientarsi serve consapevolezza e responsabilità e sono entrambe faticose.

Meglio che qualcuno ci dica “cosa è giusto fare”.

Chapeau per Mattel.

ORA PERÒ ATTENZIONE.

Io non ci vedo nulla di male nell’ indossare le Birkenstock, come le ballerine, le scarpe da ginnastica o quello che preferite.

Esattamente come non trovo affatto esecrabile l’ispirarsi ai look di chicchessia se pensiamo che facciamo per noi.

Spesso quello che ci affascina dello stile delle nostre icone di riferimento è ciò che parla di noi e che vorremmo raccontare all’esterno (si, ci si veste anche per gli altri, non solo per noi stesse e non per compiacere, ma per dire chi siamo);dunque replicare diventa un modo efficace e veloce per farlo.

Io non vedo nulla di male neanche nel volersi vedere “belle”, semplicemente credo che ci si debba intendere sul concetto di bello. 

Quanti condizionamenti ci sono dietro al nostro concetto di bello?

Quanto lavoro abbiamo fatto sulla nostra auto-accettazione? 

Che non significa farsi piacere tutto di noi (è un’ipocrisia, una dittatura del “ti devi amare come sei” che è figlia di una distorsione dell’amor proprio divenuta giudizio verso chi non si ama “al naturale”. Cioè quasi tutte, fidatevi di zia Vale), ma accoglierlo, rispettarlo e prendersene cura anche quando non ci piace.

Modificare l’immagine è cosa che il genere umano fa da sempre, come strumento di comunicazione verso chi ci circonda e come rappresentazione di sé, nel tentativo di far coincidere come ci vediamo e sentiamo all’interno con come appariamo all’estero. 

L’equilibrio è delicatissimo. Superare il limite tra autenticità - ovvero coincidenza tra dentro e fuori - e modificazione legata all’aderenza ad uno standard è facile.

La chiave è la consapevolezza.

Torniamo sempre lì: per non cadere in queste trappole bisogna fare un grande lavoro su noi stesse, conoscerci profondamente, accettare, abbracciare, accogliere le nostre contraddizioni, le zone d’ombra, e poi scegliere cosa desideriamo raccontare di noi.

Cosa vogliamo indossare.

Anche quali scarpe, si.

Libertà, però, è una parola abusata, perché senza consapevolezza non c’è libertà.

Diffidate da chi taglia con l’accetta, chi crea categorie, chi vi dice cosa è giusto o sbagliato.

Diffidate da chi pensa di possedere la verità, da chi giudica.

I tacchi non faranno di voi delle “donne oggetto” come le Birkenstock non faranno di voi delle “rivoluzionarie”.

Magari scoprirete che i tacchi, quelli adatti a voi, sono la massima espressione della vostra forza, che vi fanno sentire al di sopra di tutti gli uomini che vi mettono a disagio (altro che “oggetto del desiderio”) o che con le Birkenstock, un tubino ed un blazer vi sentite estremamente sensuali e sicure di voi.

Siamo universi complessi, per fortuna, e quello che possiamo scoprire di noi stesse potrebbe sorprenderci.

Cosa far diventare un accessorio lo decidete voi: voi siete l’essenza, il valore, il motore.

Voi sapete che significato attribuirgli.

Voi sapete cosa far diventare manifesto della vostra identità e come scegliere l’accessorio o il capo d’abbigliamento più adatto allo scopo. 

Gli oggetti non hanno un’anima, un valore intrinseco, un super potere da conferirvi.

L’anima siete voi. Il valore siete voi.

L’accessorio giusto può semplicemente aiutarvi ad esprimerlo al meglio.

Forse, in effetti, questo è un super potere.

Ed io sui tacchi mi sentirò sempre Wonder Woman.

Se siete arrivate fino a qui avete i super poteri anche voi e, se volete rispondere a questa e-mail dicendomi la vostra, vi le leggo volentieri.

Vi abbraccio forte.

Valentina

N.B. se qualcuna si è sentita offesa da questa mia disamina, non essendoci assolutamente nulla di offensivo o giudicante in ciò che ho scritto, la invito a svolgere qualche considerazione su quale nervo scoperto io possa involontariamente aver toccato.

Ricordando a voi, e a me stessa, che siamo responsabili di ciò che diciamo, non di come lo interpretano gli altri.

N.B.2 abbraccio anche chi si è sentita offesa, la abbraccio ancora più forte.

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